“E’ nella natura delle cose che ogni azione umana che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia del mondo, possa ripetersi anche quando non appartiene a un lontano passato.” Hannah Arendt, scrittrice tedesca, testmone dell’olocausto degli ebrei nella seconda guerra mondiale.
Inizio con una citazione il racconto dell’ultimo romanzo di Andrea Molesini dal titolo “Il rogo della Repubblica”, una narrazione storica di fatti realmente accaduti attraverso personaggi inventati, l’intreccio di verità ed immaginazione, di intrighi e di tragedie, religione e superstizione. L’associazione dei due autori evidenzia come le storie narrate ed ispirate a fatti realmente accaduti, spesso portano alla luce coincidenze che si perpetrano nella storia dell’umanità secondo un principio di tragica ricorrenza.
Attraverso la voce di un protagonista frutto d’invenzione, Boris da Candia, dall’umanità tormentata e colta, al soldo dell’esercito dell’ombra ovvero spia della Serenissima Repubblica, l’autore affronta il tema della supremazia religiosa del cristianesimo sull’ebraismo sin dai tempi della Repubblica di Venezia, di come già allora sia stato sinonimo di prevaricazione del più forte sul debole, effettuata dall’uomo in nome di una verità non dimostrabile e ingiusta.
La “ragion di Stato” esercita il Potere che prevale sulla Giustizia, conducendo le nazioni alla tirannia: esse, “non volendo fare forte il giusto, chiamano giusto il forte”.
Un’amara verità che soggiace lungo tutto il romanzo di Molesini, che sceglie come voce narrante un soggetto immaginario ambivalente, per l'appunto Boris da Candia, figura al confine tra bene e male, cinico e diffidente, fidato osservatore del clero ed altrettanto agnostico e realista, troppo sapiente per credere in Dio e navigato della vita per aver fiducia nel prossimo.
La trama è avviluppata sulle storie di molti soggetti realmente esistiti e peculiari nella realtà della Serenissima del 1480, poiché è sulla realtà documentale che l’ispirazione dell’autore forgia il corso degli eventi:
il processo a tre ebrei di Portobuffolè – il trevigiano e il veneziano ritornano come sfondo territoriale noto e ricorrente nelle sue opere – accusati del sacrificio rituale di un bimbo cristiano ucciso per consacrare la loro Pasqua:
“ un processo che si annuncia più emotivo che razionale”.(pag.49)
Il sospetto e la menzogna lo istigano, specialmente ad opera di un frate predicatore, Bernardino da Feltre, fomentatore d’odio dei cattolici verso gli ebrei ed i loro Banchi dei Pegni, ai quali i primi avanzano l’accusa di ostacolare il diffondersi delle Opere Pie cristiane.
Il podestà Andrea Dolfin, che come d’uso nella Venezia del tempo, è figura di legge, una figura realmente ispirata che si avvale del “notaio dei malefizi”, Francesco Marcola dé Fagnani, scrivano asservito al clero e al dettato dei torturatori. Come consuetudine l’autorità giudiziaria adottava “la tortura(che) scioglie la lingua anche ai coraggiosi …", e ”… la paura gioca a favore dell’accusa”.
Tutto il racconto è talmente plausibile che ciò che è reale si confonde con il capriccio storico, i fatti di cronaca sono descritti così verosimilmente dai protagonisti, che solo il ragionamento della voce narrante riporta la convincente menzogna alla realtà, accettabile dal “pubblico dominio” che regna nel romanzo ma che solo l’attore principale riesce ad estrapolare la ragion di Stato dalla Giustizia divina.
E sarà la stima e l’inusitata amicizia con uno degli imputati, l’ebreo archisinagogo Servadio, che si dimostrerà essere vittima innocente e coraggioso fatalista, a suscitare il fascino ed il ripensamento al protagonista, offrendogli inconsapevolmente l’occasione di redenzione in un mondo in cui scienza e superstizione sono in inconciliabile conflitto.
Da tutto questo, con un sapore d’amarezza e di funesta ingiustizia, resta la sensazione di una possibilità, di una via d’uscita sebbene ancora faticosa e remota, un barlume di speranza nel futuro.
La lettura di questo struggente romanzo lascia emergere fino in fondo un realismo onesto e crudele, che lascia al lettore la sensazione che la consolazione appartenga ad una giustizia che solo il tempo ed una conquistata saggezza permetterà di raggiungere.
Ricca e minuziosa, talvolta intricata la descrizione dei personaggi, delle loro narrazioni e del loro divenire protagonisti della storia, perfettamente inseriti nel clima sotteso alla società del tempo, fatto di timori e soggezioni alle autorità legittime ed in egual modo offuscate dalla superstizione.
Una lettura che talvolta lascia il gusto amaro della consapevolezza duramente raggiunta della civiltà odierna, che come dicevo nell’introduzione, si accompagna alla sensazione di “tragica ricorrenza” dell’azione umana, della sua cattiveria più o meno occulta che non ammette appello all’indulgenza e al perdono.
Un romanzo che vale la pena leggere per leggersi dentro, per scoprire sino a che punto la nostra interpretazione soggettiva dei fatti possa essere messa in discussione per correttezza e integrità, svelando il nostro reale sentimento di moralità e di giustizia.
Ancora una volta Andrea Molesini ha fatto magistralmente centro nell’animo dei suoi lettori.
Andrea Molesini ha pubblicato con la casa editrice Sellerio: Non tutti i bastardi sono di Vienna,che nel 2011 ha vinto, tra gli altri, il Premio Campiello e il Premio Comisso, tradotto in inglese, francese, tedesco, spagnolo e molte altre lingue; La primavera del lupo (2013); Presagio (2014) e Dove un’ombra sconsolata mi cerca (2019).
Anna Rubbini, 13 agosto 2021
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