L’HORROR, IL MACABRO E LE FOBIE NELL’ARTE E NELLA MODA
di Samuele De Marchi
Senza che molti di noi se ne siano mai accorti, la paura, il ribrezzo, il terrore e le loro emozioni cugine, sono spesso un argomento ironicamente misterioso; non ci si interroga sulla sua funzione o utilità, prevale invece la necessità vitale di estinguerla e farlo in fretta, anche se - e sono il primo ad ammetterlo - rimane forte ad esempio la curiosità di rallentare nei pressi di un grosso incidente stradale. Nonostante dunque l’urgenza e scomodità, le produzioni culturali attingono al suo potere da sempre, e la risposta è talmente semplice da passare inosservata. La paura fa parte di tutte le creature viventi come meccanismo di difesa; questo fa sì che nessuno possa rimanere fermo davanti ad essa - il nostro corpo e inconscio letteralmente si rifiutano di farlo - , e quando si parla di prodotti pensati e creati per le masse o in generale per la comprensione extra-autoriale di chi li ha creati, una tale sensibilità è una vera e propria miniera d’oro. Non sono solo strilli e pelle d’oca, ma l’immenso immaginario dell’orrore viene declinato da sempre per ogni età e target, aumentandone esponenzialmente le potenzialità: non basterebbero tutte le dita del mondo per contare in quanti programmi, film, cartoni e storie una figura come lo zombie compaia per bambini e per adulti, dalla serie di libri per ragazzi “Piccoli Brividi”, al videoclip di “Thriller” di Michael Jackson fino alla serie tv “The walking dead”. Le testimonianze delle possibilità creative legate al tema sono infinite e ritrovabili, più o meno sottili, in qualsiasi disciplina artistica, con maggiore impatto per le produzioni che prevedono sollecitazioni estetiche di vario genere, dal più distante sguardo fino alla ben più disturbante presenza e vicinanza fisica. Partendo dall’Arte, in maniera grottesca e sinistra, il surrealismo ad esempio di Salvador Dalì ci inquieta con opere oniriche deliranti e febbrili, tanto destabilizzanti quanto affascinanti. Più si osservano le sue forme e ambientazioni anomale, più ci si accorge che ci sia qualcosa che non va; si tratta di visioni accostabili a qualche trip allucinogeno, simile a ciò che si vede sotto gli effetti di LSD o salvia divinorum. Le stesse sensazioni, ma con rappresentazioni molto più cruente, vengono trasmesse dall’ opera di Francis Bacon: anche nel suo caso il terrore si manifesta con la scarsa riconoscibilità dei soggetti, dipinti in modo deforme, metastatico, mostruoso. Manomissione e profanazione di immagini sacre come papi ricreati con colori, linee ed espressioni urlanti e sofferenti, carcasse ed interiora di animali torturati e fatti a pezzi, sono tra i suoi soggetti preferiti, mescolati in modo macabro e viscerale. L’inquietudine trasmessa dalle loro figurazioni sta nella capacità di nascondere i soggetti delle opere alla coscienza umana, lasciando la terrificante sensazione di riconoscere solo inconsciamente che cosa si sta guardando, ma non poterlo identificare con precisione, avvicinandoci alla pazzia e a ciò che provocano malattie come ictus, demenza, schizofrenia.
Per potenza dei contenuti proposti e periodo storico, è impossibile non parlare della Body Art. Gli artisti appartenenti a questa corrente sono accomunati principalmente dalle violenze autoinflitte come martirio per la propria causa, ridare importanza e centralità al corpo umano con un brusco risveglio a base di pillole rosse di Matrix. Il loro modo di farlo è spesso molto crudo, violento e disturbante, aumentando il grado di oscenità performando dal vivo e dunque coinvolgendo da vicinissimo lo spettatore, per la prima volta di fronte ad azioni del genere, visibilmente cruente. Tra i bodyartisti più famosi e riconosciuti, Marina Abramović: in alcune performance l’artista urla per ore e ore fino a perdere la voce e sanguinare dalla gola, oppure darà la libertà al proprio pubblico, per ben sei ore, di utilizzare 72 oggetti sul suo corpo, tra cui coltelli e pistole, che le verranno prontamente puntate alla testa - l’occasione fa l’uomo ladro, dopotutto. Come bandiera della corrente artistica, la Abramović si fa testimone della rivitalizzazione dei sensi del corpo, strangolati da anni e tonnellate di merci, prodotti del consumismo della seconda metà del secolo scorso. La sua violenza e quella degli altri performer non è fine a se stessa, non è orrenda per nulla: è una protesta politica, sociale e culturale al fine di dar voce alle sensibilità naturali dell’uomo, sopite e perse. Gina Pane, d’altro canto, porterà nelle sue performance atti di tortura e violenze a tratti romantiche, ma pur sempre crudeli e dolorose; salirà una scala a pioli ricoperta di vetro, tagliandosi e lacerandosi mani e piedi. Sempre con una sorta di delicatezza, le sue performance saranno ricche anche di tabù, come organi genitali, ricreando “tagli-vagine” sulle proprie braccia con lamette da barba o piantandosi spine di romantiche rose sempre sugli arti.
A spingere il proprio corpo e lo spettatore ai limiti dell’accettabile anche Vito Acconci, che proverà ad ingoiarsi una mano fino a soffocare o strofinerà ripetutamente il braccio su un tavolo fino a lacerarlo, oppure toccherà la sfera delle fobie degli insetti schiacciandosi scarafaggi sulla pancia, lasciando un genocidio di liquami e esoscheletri sparsi per il suo corpo. Il pubblico diventerà testimone di atti spaventosi e disturbanti quando Acconci, per alcune performance, si masturberà davanti al proprio pubblico, farà del vero e proprio stalking con scelta casuale delle vittime o le fisserà per trenta secondi, generando imbarazzo e terrore come fanno i pazzi e i serial killer. Completiamo l’excursus con l’artista Hermann Nitsch, che accomuna performance, installazioni e atti pittorici. La sua è una violenza inaudita e tremendamente esplicita fatta di esecuzione di bestie sventrate e lacerate come in riti di sette segrete, viscere di tutte le nature possibili mostrate con fierezza, atti blasfemi e pornografici, il tutto di un perenne colore rosso sangue, utilizzato copiosissimamente dall’artista con fare tarantiniano, alla Kill Bill.
Mamma mi ha insegnato a non dirlo, ma “che schifo” è la mia prima reazione davanti a queste opere. Andando indietro nel tempo fino al primo Cinquecento, troviamo i dipinti straordinariamente all’avanguardia di Hieronymus Bosch: oggi è possibile riconoscere la sua Arte come prototipo del surrealismo primo-novecentesco, che condivide con quest’ultimo una visione onirica delirante e febbrile, disturbante alla “Alice nel paese delle meraviglie”, che ti fa sentire ci sia qualcosa che non va. Nel caso del pittore fiammingo si tratta di temi, miti e luoghi religiosi come l’inferno e i sette peccati capitali, opere che più vengono osservate, più ci si sente scomodi nella nostra stessa pelle. A confine tra Settecento e Ottocento, troviamo l’Arte cupa di Francisco Goya: il pittore spagnolo è conosciuto per la serie di quattordici opere murali dal titolo loquace di “pitture nere”. Le raffigurazioni sono tetre, ritraenti profezie e antichi miti violenti, incubi scuri simbolo del declino mentale dell’artista e dell’incerto contesto socio-politico dell’epoca. A partire dal più conosciuto “Saturno che divora i suoi figli”, si nota nelle sue opere un silenzio fastidioso, disturbante, immagini e sensazioni vicine alla schizofrenia.
D’altro canto, anche la Moda si fa forte portavoce degli scenari horror e tematiche macabre, a volte più pop-spettacolari, altre più serie e minacciose; dalla sua parte, la potenzialità dell’abito come forma di “travestimento”, mezzo di tramite per mostrare al mondo in modo innocuo pulsioni viscerali violente e nascoste. La presa spettacolare, teatrale e a tratti storico-folkloristica del tema dell’horror sarà centrale nella produzione di alcuni importantissimi stilisti durante gli anni ’90 e all’inizio del nuovo secolo. Nello specifico, designer come Thierry Mugler e Alexander McQueen sfrutteranno non solo l’impatto dell’immaginario, ma lo uniranno al racconto per accrescerne l’effetto; il primo porterà avanti la causa unendo abiti-esoscheletro, da insetto idi, con la iper-femminilizzazione del corpo, visitando dunque contemporaneamente la sfera del ribrezzo per gli insetti e la parte nascosta di pratiche sadomasochiste e bdsm, fatta di abiti in vinile e fruste. McQueen farà del racconto di storie crude la sua bandiera, ammettendo in prima persona che “C’è un qualcosa…un tocco di Edgar Allan Poe, un tocco di profondità e malinconia nelle mie collezioni”. Facendo eco alla letteratura del genere, i suoi abiti, tanto scenografici a volte e ancor più lacerati alcune altre, con l’aiuto dei movimenti delle modelle racconteranno di stupri e di drammi agrodolci. In Italia si legherà al folklore della sua terra il sardo Antonio Marras: ricreando e ispirandosi ai miti spaventosi che si raccontano ai bambini quando non fanno i bravi, darà vita a costumi bestiali e streghe - in sardo Mamuthones e Bruscia - , creature sciamaniche più antiche del mondo stesso, fatte di pellicce, rami, terra, fango e sale. Al di fuori del racconto, altri stilisti si concentrano su mutazioni, dolori e minacciosità trasmessa dagli abiti: impossibile non parlare in primis di stilisti giapponesi come Rei Kawakubo, Yohji Yamamoto e Issey Miyake. Forme altamente alterate da bozzi, rughe e rigonfiamenti, e ancora strappi informi e buchi slabbrati sono al centro delle loro anomalie vestimentarie, brandelli di quelli che una volta erano abiti, come ci si ridurrebbe dopo essere stati buttati giù da un precipizio, rigorosamente nel colore del lutto, il nero. Rick Owens e Gareth Pugh seguiranno morfologie stranianti e inquietanti da alieni robotici corazzati, trasformando chi indossa i loro abiti in macchine da guerra fatte di metallo e componenti cibernetici. Ricordano vesti futuristiche di alcune civiltà distopiche alla Hunger Games. A ribadire l’amore modacinema, Pugh per la collezione autunno-inverno 2016 farà sfilare le modelle con museruole molto simili a quelle di Hannibal Lecter ne “Il silenzio degli innocenti”: pellicola che, guarda caso, parla proprio di un macabro e malato sarto, anche se a modo totalmente suo. Carol Christian Poell farà direttamente del male fisico a chi decide di provare sulla pelle il suo pensiero in fatto di abbigliamento, con uno stile crudo ed esplicito; produrrà giacche talmente dure per la loro composizione e struttura da essere dolorose, altre ricoperte di schegge di vetro o con tirapugni e protesi metalliche integrate. Come se ciò non bastasse, le presenterà in obitori, indossate da finti cadaveri o in fabbriche abbandonate, appoggiate a terra come stracci e macerie.
L’ansia, la paura, il macabro e l’orrore seducono e ci appaiono magnetiche per la capacità di poter osservare e fare esperienza “a distanza di sicurezza“ da ciò che ci inorridisce, sapendo che qualsiasi cosa sia non può ferirci. Il vetro di sicurezza che divide spettatore e mostruosità rende l’esperienza più leggera, facendoci godere della scarica d’adrenalina dopo lo spasmo di terrore aumentando chimicamente la soddisfazione data.
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