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Santolo De Luca - LA PAURA FA '90...ANCORA - 2°capitolo

Santolo De Luca - Foto di Iaia GaglianI

L’attesa presenza di Santolo De Luca su aARTic definisce uno sguardo sull’arte contemporanea, ed in particolare sulla pittura, vista attraverso i suoi occhi e le sue opere. Il suo intervento si svilupperà attraverso più capitoli, analizzando la contemporaneità scandita dagli eventi che negli ultimi venticinque anni hanno segnato la nostra storia e le nostre emozioni.

A partire dagli anni ’90, periodo in cui la corrente

“medialista” lo vede protagonista e maggior esponente, l’Artista ci disegna la sua opera attraverso gli accadimenti sociali, politici e culturali che hanno segnato il suo percorso stilistico e concettuale.

Le parole per Santolo De Luca hanno un valore assoluto, sono parte essenziale dell’opera, sono definizione,

gioco, suggestione, divertita ironia; sono il cuore pulsante della figurazione, sono opera stessa.

Ed è con grande attenzione che dobbiamo decifrare questa sua incisiva e pittorica dialettica. A.R.

…Ma la l’esempio più significativo che testimoniava negli stessi anni, tale cambiamento della figura del gallerista, fu senz’altro l’avvento operativo dell’imprenditore Charles Saatchi, che fino agli anni 80 era stato tra i collezionisti più considerati del Regno Unito, oltre ad essere dagli anni settanta, fondatore e proprietario dell’agenzia pubblicitaria più importante al mondo e di conseguenza sponsor di gallerie londinesi come Weddington o Gagosian. Non era raro in quel periodo trovare intere pagine pubblicitarie sulle più importanti riviste d’arte come Artforum, Flash Art, Freeze, con a fondo pagina - anche se con caratteri microscopici - la firma Saatchi & Saatchi. Dunque smette di pubblicizzare la produzione altrui, e avendo il potere mediatico e finanziario di scavalcare qualunque altro tipo di condivisione da parte sia della critica che del collezionismo, non che del sistema stesso delle gallerie, decide di operare nel settore in prima persona come gallerista e con un suo esclusivo prodotto. Stiamo parlando di Damien Hirtsh, di cui fino ad allora le poche notizie relative alla mia generazione oltreconfine che arrivavano da Londra, erano quelle di un giovane e bravo organizzatore di mostre che un gruppo di artisti della city, costituitisi come The Young Britysh Artist, aveva eletto a loro coordinatore. Ricordo una delle sue prime opere di quegli anni: uno squalo conservato sotto formaldeide che fluttuava in una grande vasca di vetro. Al momento non potevano non venirmi in mente altri artisti che pure avevano usato animali nella loro opera, alcuni decenni prima, come Kounellis con i suoi cavalli esposti alla galleria L’Attico di Roma negli anni sessanta, ma quelli erano almeno vivi, oppure a Joseph Beuys con il suo emblematico: “il coniglio non ama Beuys”, dove nel titolo dell’opera c’è quasi uno scusarsi verso il coniglio morto da parte di Beuys, per averlo se non altro usato e trasformato in prodotto concettualmente artistico e inevitabilmente offerto all’attenzione del pubblico e dunque del mercato. Quantomeno quel mercato più attento a una poetica dell’opera, che chiaramente come in questo caso si manifesta tutta nel titolo.

Ma nel titolo dello squalo: “impossibilità fisica della morte nella mente di un vivo”, Damien Hirst non si scusa di niente e con nessuno. Non può perché non deve. Risponderà solo qualche anno dopo alla critica di cultura ambientalista e animalista, guarda caso alimentata a suo tempo e finanziata proprio da Joseph Beuys, che lui gli animali li compra già morti e che ad ammazzarli ci pensa qualcun’altro o qualcos’altro. Un pò quello che avrebbe risposto un tossicomane beccato dall’anti droga. C’è di fatto però, che è colui che tiene in vita un mercato. Si sa che quando c’è una richiesta sul mercato trovi sempre qualcuno pronto a soddisfarla. Anche nel caso di una richiesta di morte, o come in questo caso di “natura morta”, in cui, non essendo affatto tralasciato l’aspetto estetico, non c’è altro da decidere: se trattenerla nella sua estetica oppure confezionarla in una raffinata e costosa “cornice” e dunque offrirla questa volta a un mercato più raffinato, altrettanto quanto la cornice e quindi capace di apprezzarne la raffinatezza. La critica omologata di quegli anni ci poneva davanti a come Damien Hirst affrontasse il problema, e sul come, nella morte, possa esserci una nuova vita. Dunque, detto più realisticamente il problema sarebbe: sul, come rimettere in vita la natura morta. Ma, questo intanto è esteticamente un problema dell’imbalsamatore, che non rimette certo in vita l’animale, ma nella migliore delle ipotesi lo rimette in vendita. Oltremodo però, concettualmente, questo è un aspetto fondante di ogni realizzazione di un idea di arte, e da sempre, prima di ogni altro linguaggio, della pittura. Tant’è che le mele nella natura morta del cesto di Caravaggio vivono ancora, e proprio in quegli anni, circolavano tra noi, dico non a caso, animatamente, perché rappresentavano - guarda caso - la nostra moneta corrente, essendo riportate su i tagli da centomila lire.

Fu da questa speculazione che nel 1990 nascono i miei quadri da “Centomelelire”, ai quali davo un prezzo presunto, e che mi agevolavano il titolo, di mille lire per ogni mela dipinta. C’è da dire però, che fin qui l’operazione è ancora direi giottesca. Almeno sul piano puramente speculativo. Perché anche Giotto stabiliva i prezzi delle sue opere a seconda di quante testine dipingeva nel quadro.

In questo senso sarebbe da ritenere il primo vero grande artista Pop. In fondo lui non doveva perché non poteva porsi un problema che non esisteva. Il problema retorico per cui, secondo l’estetica capitalistica, l’opera d’arte non può nascere come merce ne tantomeno può essere mercificata. Quella retorica che ha affranto la figura dell’artista per quasi tutto il novecento e che costò, per esempio a Salvador Dali,


l’appellativo di “avida dollars”, e dico “quasi tutto il novecento” perché solo e giustappunto negli anni novanta questo moralismo fu risolutamente affrontato, e per quanto mi riguarda, andando a cercare il progetto nel più infimo dei casi. Come dal definire economico il più retorico e oleografico dei paesaggi italiani, quello del golfo di Napoli (Paesaggio economico, 1993). Nel sostituire la parola BIO, alla parola DIO.


Come in “ Diodegradabile”, che è il titolo della mia prima opera con le pillole del 1996, presentata un anno dopo alla Annina Nosei Gallery di New York nella mia personale “Spirit & Matter Speculation”, progetto nel quale dichiaravo e rappresentavo, tra l’altro, il definitivo primato in termini di affermazione, della materia sullo spirito. Dell’oggetto prodotto, sui contenuti espressi.

Dell’ oggetto da appendere sul concetto da spendere. Dove nell’opera col titolo “Materia prima, secondo Spirito” 1996, con la materia a me più prossima ma anche a me più congrua, ripresentavo essa stessa…il tubetto di colore.

Intendo, non di colore colorato ma di colore dipinto. Come se la pittura si offrisse esclusivamente come cosa dipinta.


Sul come, poi, è un discorso che si potrebbe anche fare… ma non ora…

... continua


Santolo De Luca, Dicembre 2018


archiviosantolodeluca@gmail.com a cura di Alice Rubbini


Gli altri capitoli ai seguenti link:

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