“Un archivio non ha senso se non è reso accessibile alle menti creative che sono già protagoniste del domani, se non è dato in pasto a quella voglia di conoscenza che solo i giovani possono insegnarci”. Così Stefano Gabbana ci regala il suo nuovo profilo Instagram @mister.gabbana, attivo dall’aprile 2024; un immaginario riaprire e sfogliare vecchi libri fotografici pieni di ricordi e un pizzico di polvere trovati in cima ad un mobile, facendosi raccontare pezzo per pezzo storie di famiglia.
Mister Gabbana è a tutti gli effetti un archivio, un’infrastruttura che molte case di moda si affrettano a costruire capendo il potenziale immenso di avere nello stesso posto e allo stesso tempo la storia e il prestigio del proprio lavoro. Ma Gabbana non lo riempie di foto ufficiali in altissima qualità marchiate e codificate, di comunicati con firme e controfirme disponibili solo con autorizzazioni esclusivissime o incontri diretti con il Santo Padre; le foto e i video presenti sul profilo che ritraggono interpretazioni di capi iconici come i jeans strappati e corsetti e spiegano esperimenti e ispirazioni dietro a collezioni e sfilate diventano solo un supporto, espedienti al fine di trasmettere aneddoti sulla loro carriera e l’amore per quei momenti; le emozioni, preoccupazioni e traguardi di due giovani stilisti con poco in mano ma tanto nel cuore, come ci ricorda lui stesso quando, nella lettera che accompagna il profilo, lo stilista ricorda “avevamo solo due milioni di lire in tasca, continuavamo a non saperne molto, ma amavamo la moda e ci amavamo l’un l’altro. È con questo spirito che mi ritrovo a guardare le vecchie foto…”. Utilizza immagini e parole anche per ringraziare e ricordare le persone che hanno creduto in loro, dando molto credito all’ affetto umano ricevuto quanto alle opportunità di mercato, dimostrando una gratitudine commovente per la top model Marpessa Hennik, musa e protagonista di scatti memorabili di una bellezza sconcertante, per chi stava dietro all’ obiettivo, lo storico fotografo e fotoreporter Ferdinando Scianna e a chi credette in loro dandogli spazio sulla passerella “nell’ ultima ora dell’ultimo giorno del calendario della settimana della moda” nell’ ottobre 1985, il “ministro dell’eleganza” Beppe Modenese, attivo nella moda italiana dai suoi inizi negli anni Cinquanta. Gabbana parla del proprio mestiere ed evoluzione artistica attraverso sé stesso, ciò che provava e prova tuttora, scendendo dal piedistallo del successo, del mercato e dell’attenzione mediatica per riconnettersi con la più pura ingenuità e creatività di due ragazzi, che vedono nella mancanza di mezzi solamente la fortuna di fare ciò che amano.
È limpido come il mare della loro Sicilia che lo scopo di questo archivio “informale” non sia ottenere un profitto, economico o di status che sia, ma dare ai giovani una pacca sulla spalla, trasmettere l’importanza di tenacia, sogni, continuità e perseveranza come valori irrinunciabili per costruirsi un futuro. La favola Dolce e Gabbana inizia nella seconda metà degli anni Ottanta alle porte della decade successiva, e come tutte le arti che si rispettino diventano forma plastica degli smottamenti politico-sociali e culturali in atto nello stesso periodo. Per contestualizzare e motivare i loro inizi, tra i primi grandi sviluppi tecnologici, disastri ambientali, proteste politiche e attentati, si respira l’aria di risvegli e prese di coscienza di un mondo che sta cambiando, e lo sta facendo in fretta: nel 1986 esplode il reattore 4 della centrale nucleare di Černobyl e appena tre anni dopo, nel 1989, la superpetroliera Exxon Valdez si incaglia in Alaska causando uno dei primi immensi disastri ambientali del mondo contemporaneo, rendendo coscienti le popolazioni degli inquietanti possibili risultati del capitalismo e sfruttamento del pianeta. Nello stesso anno, da due distantissime parti del mondo, importanti avvenimenti politici generano un effetto domino inimmaginabile; il popolo cinese punta i piedi contro un regime di oppressione sconosciuto al resto del mondo, martirizzandosi nel massacro di piazza Tienanmen. La protesta attraversa tutti i paesi del blocco orientale come fa una scossa elettrica dentro ai nervi fino ad arrivare nel novembre ’89 al crollo del muro di Berlino, portando da lì a poco alla fine ufficiale della Guerra Fredda nel 1991, e appena l’anno dopo sarà l’Italia a bruciare con i terribili attentati di Capaci e Via D’Amelio in cui persero la vita i magistrati Falcone e Borsellino. Dal punto di vista creativo-culturale, i rovesciamenti non sono da meno: la naturalezza, la spontaneità, l’inevitabile difetto che caratterizza - e da carattere - alla verità, tornano a fare da padrone alle discipline artistiche degli anni Novanta, come le piante si riprendono una vecchia casa abbandonata. Come si stringono le mani nella politica - in quel momento più che mai - , nuove coalizioni nascono tra poetiche creative che nel loro stato più puro sarebbero inconciliabili, ma decidono di farsi forza contro lo strapotere della perfezione e della ricchezza che contraddistingue la creatività degli anni Ottanta; il neo minimalismo porta pulizia delle forme, l’assoluta chiarezza della geometria universale e la mancanza di equivoci della monocromia, mentre il neo poversimo si occupa di fornire antidoti alle messinscene come casualità, forme gonfie e imprevedibili, texture rugose e naturali come le crepe di un terreno arido. I due eserciti alleati saranno influenzati l’uno dall’altro tanto da essere a volte irriconoscibili tra loro e si concederanno decorazioni e colori evolutivamente e concettualmente corretti, ma la loro controffensiva allo sfarzo degli anni ottanta sarà forte, e in questo le prime fasi di Dolce e Gabbana saranno da manuale. Anche i suoni della musica e gli scatti del cinema non si tireranno indietro, e saranno un ottimo campo di battaglia e sperimentazioni per questo nuovo filone creativo: il nostrano Giuseppe Tornatore - peraltro siciliano proprio come Domenico Dolce - e il suo Nuovo Cinema Paradiso dell’88 ricodifica il neorealismo cinematografico italiano di De Sica e Luchino Visconti - da cui gli stilisti prenderanno apertamente ispirazione per alcune collezioni - , mentre lo schifo della droga e delle sue orrende verità saranno sotto gli occhi di tutti grazie a film come Trainspotting del 1996 tratto dal romanzo di Irvine Welsh del ’93, e l’allure del tossico prenderà connotazioni sensuali con l’heroin chic portato da modelle scheletriche e pallidissime sulle passerelle di moda, con la musa di molti Kate Moss a farne da portabandiera.
Il crudo, le viscere, la “polpa”, saranno protagoniste in modo delirante e violento nelle pellicole di Tarantino nel ’94 proprio in Pulp Fiction, mentre nella musica, Kurt Cobain e i suoi Nirvana con altri colleghi del grunge e alternative rock sporcheranno suoni e voci fino a sfigurarli con distorsioni e maltrattamenti fonici intanto che Aphex Twin, musicista e dj tuttofare britannico, darà grossa vitalità a un’elettronica ambientale pulita e minimale.
Calmando un attimo i toni, quello che si avventa culturalmente assieme a Dolce e Gabbana è fondamentalmente una innocua voglia di verità, di mostrare il mondo per quello che è realmente sfruttando le sue forme e significati più nascosti, dalla casualità alla inequivocabile geometria, sperimentando grazie a una nuova coscienza rigenerata e alternativa rispetto al recente passato.
“Alternativo” è una parola adatta a descrivere la genesi creativa di Dolce e Gabbana; il termine ha origine da “alterno”, indicando dunque un fenomeno fatto di intervalli e fasi anche diametralmente opposte tra di loro. Le prove vengono direttamente dalle parole dei due stilisti: quando Gabbana dice “Io amo gli stampati. Amo il colore”, Dolce risponde “Non mi piacciono i tessuti stampati, non mi piace il colore”. Distanza che la coppia racconta appartenere anche alle loro rispettive case, in quanto la casa di Dolce in Francia è “completamente bianca e nera, completamente squadrata e lineare”, mentre quella di Gabbana a Stromboli “è hippie, piena di fiori ovunque”. È divertente notare che Gabbana, milanese, scappa dal grigiore e girotondo meneghino per rifugiarsi proprio nella placida e soleggiata Sicilia di Dolce da dove quest’ultimo invece fugge verso la capitale della moda italiana, dicendo: “Ero venuto a Milano proprio perché volevo chiudere con il passato. Sognavo moderno! Opponevo resistenza a tornare indietro”. Da questi piccoli aneddoti si coglie immediatamente l’alternanza tra due personalità che trovano la forza proprio in questa dialettica, motore magnetico del loro successo nelle decadi, sfruttando differenze e complessità per rimanere sempre fedeli a loro stessi senza piegarsi ai ritmi della moda.
Il loro sarà come per molti un timido esordio per la primavera-estate 1986: la prima collezione “Geometrissimo” sarà presentata alla fine dell’ultima giornata della fashion week con solo un lenzuolo matrimoniale a dividere passerella e backstage. Già dal nome, ci fa capire la sincronicità con il neo minimalismo nascente di quegli anni; la più alta geometria universale ed assoluta, la babilonicità inopinabile del numero viene però corrotta, arrugginita dalle forme sciolte e monocrome del neo poversimo generando linee fluide, morbide e comode, prendendo come musa le pratiche vestimentarie portate avanti dagli stilisti avanguardisti giapponesi sempre di quel periodo come Rei Kawakubo con Comme des Garçons. Il fulcro centrale della creatività diventa il corpo umano e ciò che esso è in grado di fare senza la costrizione degli abiti iper ornamentali visti negli anni Ottanta; “Donne vere”, dell’autunno 1986-87 si preoccupa proprio di consolidare questa filosofia non solo dell’abbigliamento, ma anche della vita, affiancandosi sempre di più alla naturalezza e alla verità. “Donne vere” anche perché, per mancanza di risorse, gli stilisti si ritrovano a sfruttare amiche e conoscenti per realizzare gli scatti della collezione, confutando così ogni possibile inganno e messinscena e realizzando, sempre artigianalmente, i loro primi jeans strappati a mano con della naturalissima pietra pomice.
Tra scatti pseudo improvvisati affini al reporting fotografico più puro - grazie anche alla mano di Ferdinando Scianna - e a forme inedite rispetto al passato, fino a questo punto gli stilisti si rivelano essere estremamente materici, esaltando la spontaneità casuale di una “non-forma” contro la plasticità rigida della decade precedente. Fino a che, un sottile soffio di vento sposta la cenere vulcanica della terra a cui si erano ispirati, scoprendo al di sotto un prezioso mosaico antico. Con la primavera-estate 1988 “Il Gattopardo”, inizia a intravedersi dal titolo una luce di citazione del passato e di ricchezza folkloristica-culturale; da questo momento si fa, anche se solo idealmente, presente l’attenzione alle ricchezze di altre epoche, opere e discipline artistiche, non limitandosi più ad ascoltare con l’orecchio poggiato sulla terra il borbottio primitivo dell’Etna o delle isole Eolie, ma affiancando alla ricchezza fisica e terrena - nel vero senso della parola - anche quella culturale.
L’autunno-inverno 1988-89 li scoprirà ulteriormente di nuovo solo dal titolo: “Il Barocco e il Neorealismo: Rossellini / De Sica / Visconti”, interpellando direttamente epoche artistiche note per il loro sfarzo e personalità importantissime del mondo del cinema; diventa innegabile ora l’ammirazione del duo creativo per epoche passate di splendore culturale e la devozione ad altre discipline umane, ricchissime di opportunità per generare valore in modo totalmente differente da quanto fatto finora.
Uno dei giri di boa della creatività di Dolce e Gabbana avverrà con la primavera-estate ’90: “Gli anni ’60”, dove comparirà la stampa di un affresco, il Trionfo di Galatea di Raffaello. L’apparizione è esemplare, quanto di più affine al passato e alla riproduzione finta uno studioso di moda possa desiderare; l’affresco in sé è la prova dell’attenzione al passato, anticorpo che è filologicamente corretto a spiegare la flessibilità verso le epoche scorse del neo minimalismo e neo poverismo, ma sempre e comunque riferimento passatista. Stesso alibi per il fatto che il mosaico in questione sia stampato: non ricamato o realizzato sul capo a mano con gessi naturali, sangue o grasso animale grezzo come avrebbero fatto i pazzoidi puristi radicali del poversimo, ma figlio emblematico di una tecnica che imita l’originale, annullando texture, rilievi e ogni altro tipo di feedback risparmiando solamente quello visivo, raggiungendo il grado della fotografia.
Nella stessa collezione presenti anche i primi corsetti della coppia, anch’esso adatto a descrivere la tendenza complessa e dialettica della loro creatività. Il corsetto, rigido e limitante, è sì antiquariato indossabile e dunque non amato da chi crea moda come loro, fatta di materia indomabile, geometrie sciolte e ripristino della naturalità del corpo, ma diventa anche pontefice di una sessualità sfrenata e profonda, colonne portanti del leitmotiv di Dolce e Gabbana e appartenenti alle pulsioni irresistibili e viscerali tipiche del poverismo.
La citazione ad altri, lasciando da parte la novità dell’avanguardia vista finora e la primitività delle terre incontaminate, si farà sempre più nitida con “La Dolce Vita”, primavera-estate 1992 dall’ovvio richiamo felliniano, diventando sempre più finta, esagerata e per alcuni pacchiana alla tornata del nuovo millennio con “Kitsch”, autunno-inverno 2002-03.
È ormai palese a questo punto il cambio di rotta della loro visione creativa. Se prima era dominante la terra vera e propria, le sue polveri, i venti e le frane, ora a far da padrone è ciò che è stato costruito sul medesimo suolo; la cultura e il folklore arricchiranno di colori, riferimenti e gioielli la loro fase più cupa e seria, togliendo il focus dall’ esperienza di indossare abiti imprevedibili nelle forme a favore di un racconto storico ricco, allegro e seducente. La citazione popolare di Dolce e Gabbana si nutrirà delle storie che tutti sanno e tutti raccontano raccolte per le strade d’Italia, portandosi con sé ogni genere di stereotipo diventando indiscutibilmente sinonimo dell’italianità. La tradizione non sarà sola, ma verrà sostenuta da un’attenzione ed una ricerca verso le antiche popolazioni mediterranee che hanno lasciato il segno sulla nostra penisola nel passare dei secoli, a partire dai greci fino ai domini spagnoli in epoca medievale. La ristrutturazione della loro linea creativa non finisce qui, in quanto prenderà posizione centrale la componente erotica dell’abbigliamento, che se prima parlava a livello ormonale e animalico attraverso strati e strati di tessuto turbolento, ora si presenta nelle forme canonicamente appartenenti alla seduzione più femminile possibile, come pizzi, sete, tacchi alti, corsetti e rossetti. Gli stilisti in questo momento più maturo della loro carriera, sembrano quasi tornare alle linee filosofiche della moda degli anni Ottanta fatta di ricchezza, esagerazione e finzione, la stessa contro la quale hanno lottato duramente nei loro primi anni con attentati rivoluzionari: ma questo cambio di orizzonti non è certamente un fallimento, impoverimento della ricerca o abbassamento a leggi di mercato, solamente sinonimo dei tempi che cambiano e intrinseco degli stilisti in partenza, dato che ci è sempre stata nota la loro vena creativa duale.
Fin da subito la coppia di stilisti inizia a fare grande uso della lingerie e l’abbigliamento intimo, infondendolo di grande carica erotica a tal punto da superare la carne del corpo stessa: per la primavera-estate 2006 - ventesimo anniversario del marchio - sarà come guardare dentro la finestra di una camera da letto vedendo ragazze con addosso solamente le loro vestaglie intime, dai bianchi ingenui ai rossi passionali. Assieme a loro calze autoreggenti, fiocchi in raso e stampe floreali o Vichy come le tovaglie dei picnic, mantenendo la spontaneità e l’innocenza che contraddistingue i due stilisti ma rendendola giocosa e deliberatamente ammiccante.
La femminilità e l’allure dell’abbigliamento da casa rimane costante, e si ripresenta per la primavera-estate 2009 “Pigiama Barocco”, nome che più didascalico non si può: partendo da preziosi pigiami e vestaglie in sete colorate si passa alle loro svariate manipolazioni, affiancandoli a gonne di paillettes e giacche dalle maniche rotonde, entrambe strutturatissime come acconciature laccate. Rendono ancora più glamour l’effetto finale grandi collier dorati pieni di pietre, portando alla mente le immagini di metà secolo scorso di ricche signore aristocratiche in déshabillé.
L’italianità allegra e chiassosa specialmente del sud Italia, sarà sempre presente a volte come richiamo o atmosfera, altre volte come vera e propria protagonista, tanto che abiti e soprattutto allestimento della passerella faranno sentire noi spettatori all’interno di una ricostruzione scenografica quasi teatrale: per la primavera-estate 2012 Dolce e Gabbana ci portano infatti tra le accecanti e magiche luminarie salentine di paesi come Otranto o Scorrano in provincia di Lecce (che riporteranno anche per la collezione maschile primavera-estate 2022), mentre le modelle, tableaux vivants di un mercato ortofrutticolo locale, sfilano indossando abiti ricchi di fiori, foglie, frutta e verdure talmente colorate quasi da poterne sentire il loro profumo freschissimo, mostrando fieramente un piccolo angolo di bellezza italiana quotidiana al mondo.
Negli immediati anni successivi gli stilisti ci porteranno invece indietro nella storia, a tutte le testimonianze che grandi conquistatori e civiltà del passato hanno lasciato in terra sicula, che si riconferma come sempre grande punto di riferimento della loro moda: la primavera-estate 2014 colonizza la passerella con stampe di rovine archeologiche del mondo greco riproducendo addirittura le colonne ioniche come tacco delle scarpe, mentre l’anno successivo, nel 2015, il loro omaggio va al dominio iberico in Sicilia iniziato del 1516 con abiti che integrano elementi iconici spagnoli come il bolero dei matador, il rosso della loro “capote de brega” sulla passerella e decorazioni floreali esotiche tra i capelli delle modelle.
Le ispirazioni autoctone, esotiche e da viaggiatori nel tempo rimarranno una costante fino ai giorni nostri togliendo qualsiasi dubbio sulla loro integrità e coerenza creativa, princìpi riconfermati anche dalla presenza costante di muse-modelle nelle loro passerelle e collezioni come Asia Argento, Monica Bellucci, Bianca Balti e Kim Kardashian.
Questo è assolutamente ciò che, mettendo da parte il gusto personale, deve essere apprezzato e riconosciuto criticamente alla carriera di Dolce e Gabbana; dopo la loro prima fase ultra sperimentale ed alternativa ha certamente preso potere una creatività più popolare, opulente ed esagerata che può essere vista come espediente per un successo facile, ma la verità è che il duo ha sempre dichiarato di avere questo lato sin dagli inizi del loro percorso; è da ammirare invece la loro perseveranza e fedeltà a un flusso creativo incondizionato e talmente ricco che li ha portati a navigare in lungo e in largo tra le mille ispirazioni possibili senza il minimo rimpianto del loro passato, che invece viene esaltato con nostalgia proprio da Gabbana nel suo archivio personale su Instagram.
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