di Anna Rubbini
Il 2020 è stato come un anno sabbatico che ha significato per molte Istituzioni, sia pubbliche che private, la chiusura prolungata al pubblico.
Questo ha permesso, d’altro canto, di recuperare gli spazi e le idee, e di dare un significato rinnovato e più profondo alle iniziative in programmazione per quest’anno, un 2021 di riscoperta e cambiamento, in virtù di quanto accaduto grazie alla pandemia nella vita di ciascuno di noi.
Per questo motivo desidero iniziare il nuovo anno parlando di una mostra che ha aperto coraggiosamente il 5 settembre scorso e che termina in questi giorni, il 9 gennaio, un evento che si inserisce tra quelli per celebrare i 1600 anni della fondazione di Venezia: la mostra a Palazzo Grassi dal titolo Hypervenezia, ideata e realizzata da Mario Peliti, a cura di Matthieu Humery, conservatore presso la Collection di fotografia Pinault.
Il Museo ha riaperto ai visitatori dopo una lunga chiusura per restauri, presentando per la prima volta in via ufficiale il progetto “Venice Urban Photo Project” che l’autore ha compiuto nell’ambizioso intento di realizzare un Archivio di immagini della capoluogo per la Fondazione.
Tutto è nato da una riflessione di Peliti che, dagli anni ’70 dei suoi studi a Venezia, torna a viverci nel 2002 trovando inaspettatamente un centro spopolato di circa 70 mila abitanti: sorse dunque spontanea la domanda sul destino della città se non vi fossero i turisti, peraltro molto diminuiti non solo dalle restrizioni della recente crisi pandemica, ma anche dagli alti costi da sostenere per un turismo di massa o, per meglio dire, mordi e fuggi.
Decise così di produrre una documentazione fotografica dei luoghi deserti dell’urbe, secondo un preciso percorso, dapprima utilizzando una macchina analogica, passando poi nel 2013 al digitale, mantenendo sempre la scelta del bianco e nero.
Attualmente l’archivio conta oltre 12.000 scatti tutti realizzati alle stesse condizioni di luce, in assenza di ombre e, innanzitutto, senza persone. Un’atmosfera unica e preoccupante, una Venezia atipica, forse nella memoria di anziani abitanti in tempi di guerra, un luogo spettrale eppure ineguagliabile, di una stranezza inquietante.
Il percorso espositivo di Hypervenezia si snoda in un unico circuito immaginato dal curatore Humerym, anche se in realtà è concepito come somma di tre installazioni susseguenti:
un primo tracciato lineare di 400 foto che offrono un tragitto tra i sette sestieri di Venezia; una seconda installazione su parete, composta da 900 fotografie disposte come una mappa vista da satellite della città-isola a forma di pesce; la terza e ultima, costituita da una stanza che immerge lo spettatore nella proiezione di un video composto da circa 3000 immagini che scorrono su tre pareti, accompagnate da una brano musicale creato appositamente dal compositore Nicolas Goldin. L’autore, come spesso accade nel suo approccio creativo, si è posto innanzi alle istantanee della mostra proiettandole in successione, ed ha preso ispirazione per comporre un’armonia suggestiva e toccante, rendendo la location di quest’ultima installazione ancora più ricca di patos.
Hypervenezia, particolare della seconda installazione
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